Domanda: Hai detto che un tempo scrivevi di cinema su alcune riviste, (Cineforum), e poi lentamente sei passato a lavorare dietro la macchina da presa, in particolare realizzando Stanley and Us, un documentario su Kubrick, uno sul cinema digitale, un altro su cinema e brigate rosse (Fuori fuoco, con Maya Sansa) fino al film su Lovecraft (per citare i tuoi lavori più conosciuti)… Cosa ti ha spinto a volerti cimentare con il lato pratico dopo aver affrontato per un po’ di tempo quello teorico? Ho visto inoltre dalla tua filmografia che la tua prima opera risale al 1989, poi dopo sei anni di apparente silenzio, sei tornato a girare e da allora non ti sei più fermato, ormai sembra essere il tuo mestiere, quello di girare…
La tua polivalenza comunque si arricchisce anche di diverse collaborazioni… Sei stato direttore della fotografia per alcuni altri corti e documentari, e di solito comunque sembra che tu abbia un controllo “artistico” del tuo lavoro dalla concezione del soggetto, alla realizzazione e quindi anche al controllo della luce. Che tipo di formazione hai avuto? Da cosa sei partito?

Federico Greco, risposta: Il percorso è sempre stato diviso nella mia testa in due parti apparentemente distanti tra loro. 1) Un modello altissimo di regista; 2) una gavetta molto lenta e progressiva. Sono il teorico dei piccoli passi. E’ un atteggiamento mentale derivato necessariamente dal fatto che all’inizio non avevo altro che un’enorme passione, nessuna conoscenza pre-acquisita degli strumenti del mestiere (che so, un documentarista in famiglia) e nessun “aggancio” che mi permettesse di bruciare le tappe. Ma andiamo con ordine. Da quando ho conosciuto il cinema di Stanley Kubrick – ero un adolescente – ho intuito che non potesse esserci modello migliore per me, che cominciavo a percepire che il regista era ciò che volevo fare a tutti i costi. Non so perché abbia iniziato così presto a desiderare questo mestiere, quindi non mi metterò a inventare poetiche motivazioni. Ma quando “incontrai” Stanley sentii di aver trovato una sorta di maestro. Ovviamente non ho mai pensato di emularlo, sarebbe stato un errore gravissimo. Nessuno può essere qualcun altro. Ho pensato però che se tendevo a lui avrei comunque avuto un obiettivo che mi costringeva a non accontentarmi mai. Non sapendo come dare il via all’avventura ho cominciato con corsi di ripresa e sono diventato un operatore video. Poi mi sono iscritto all’Università per formarmi un personale percorso teorico. Talmente personale che l’università non l’ho finita, per un solo esame. Contro tutti. Poi ho deciso che era arrivato il momento di mettere in pratica le conoscenze teoriche e la mia vastissima curiosità per ogni tipo di cinema che mi aveva portato ad avere una buona cultura in questo senso. Era il campo più semplice ed immediato dove cimentarmi. E ho cominciato a scrivere come critico e giornalista. La vera e propria realizzazione delle mie prime regie è arrivata dopo, perché era molto più difficile fare che parlare. Ma era lì che ho sempre voluto arrivare. E’ con Stanley and Us, un documentario-omaggio su Kubrick (ovviamente) che ho capito che avevo qualcosa da dire. E che interessava a qualcuno. Il documentario ha avuto un discreto successo in festival (Torino per esempio), in tantissime proiezioni in giro per l’italia, in libreria (è diventato un cofanetto, libro più film) e nel mondo (è stato venduto dal Giappone all’Australia). Oltre che essere trasmesso su RAISAT CINEMA numerose volte nella sua interezza (film da 60′ più 38 episodi da 15′). A quel punto ho preso il coraggio a due mani e mi sono inventato altri progetti, rigorosamente ideati da me (spesso in collaborazione) e mai su richiesta. Anche perché non so se sarei stato capace di fare un documentario o un film su richiesta. E credimi, non è necessariamente un fatto positivo. Anche Road To L. è stato creato da me (e Roberto, chiaramente, l’altro regista) e poi proposto. Stavolta però ad una casa di produzione vera. Che ha trovato – per la prima volta nella mia vita – dei soldi veri e mi ha permesso di fare un film vero. E’ un lavoro di una difficoltà immane e oggi guardandomi indietro mi chiedo come ho fatto ad essere così incosciente ad averlo iniziato. E col tempo l’incoscienza si consuma… Al punto che adesso ho accettato un progetto scritto non da me ma da un mio amico sceneggiatore, molto in gamba. Un film noir molto cupo, con un’idea di cast interessantissima e una storia molto suggestiva. Ci credo davvero. Stiamo cercando i soldi proprio in questi giorni.

Per quanto riguarda la “direzione della fotografia”, è un altro discorso. In realtà un po’ mi vergogno molto a usare questo termine. Se lo metto nel mio curriculum è solo perché non ce n’è un altro più adatto che spieghi il mio ruolo la maggior parte delle volte che ho realizzato le mie cose. Direzione della fotografia significa ben altro che quello che faccio io: cioè mettere qualche luce per evitare che l’inquadratura paia amatoriale. Però è un dato di fatto che ho sempre messo io “l’occhio nel buco”, e sono sempre stato dietro la telecamera. Nel caso di Road To L. invece ho preferito che la fotografia la facesse un vero professionista (molto bravo, tra l’altro) e mi sono ritagliato, oltre alla regia, il ruolo per me più congeniale, quello che appunto permette di mettere l’occhio nel buco: il secondo operatore. E’ col montaggio invece che ho fatto qualche progresso serio. Tutti i miei lavori sono stati montati da professionisti di cui mi fidavo ciecamente. E’ ovvio che la mia supervisione è sempre stata costante e strettissima. Un montatore può stravolgere completamente il senso di un documentario. E questo mi ha concesso di imparare moltissimo, al punto che uno dei miei ultimi documentari, Fuori fuoco – Cinema, ribelli e rivoluzionari l’ho montato materialmente da solo (e artisticamente con Mazzino Montanari, il co-regista). I miei amici montatori mi direbbero: “torna a fare i film e lascia questo lavoro a noi”. E avrebbero ragione. Ma non c’erano soldi, stavolta. Per dire che la collaborazione è un aspetto fondamentale nella realizzazione di un film. Anzi, il principale. Anche se tendi a voler controllare tutto il processo come faccio io.

Domanda: Hai detto:”E’ un lavoro di una difficoltà immane e oggi guardandomi indietro mi chiedo come ho fatto ad essere così incosciente ad averlo iniziato. E col tempo l’incoscienza si consuma”. Interessante questa cosa dell’essere incoscienti. In fondo è vero, bisogna avere molta spregiudicatezza per iniziare a girare. Certo all’inizio un po’ di passione, poi la determinazione del voler fare a tutti i costi almeno qualcosa, poi il salto. Sei regista e nemmeno, magari non è il tuo caso, te lo aspettavi… Per te ora è come respirare. C’è stato un momento in cui hai pensato: “non ce la faccio, mollo tutto, dove sto andando” e cose del genere? Sicuramente ci sono state, ma cosa ti ha spinto davvero a voler continuare. Ci vuole molto coraggio, secondo me, soprattutto in Italia, ad essere così “indipendenti”.

Federico Greco, risposta: Sì ci sono stati momenti del genere: quasi ogni giorno mi chiedo esattamente “dove sto andando”. Il fatto è che mi sono costruito la barca da solo e l’ho varata nel Mar dei Sargassi, che non so neppure dove si trova (magari solo dentro un libro). Ma insisto sul concetto di “incoscienza”, piuttosto che di coraggio. A meno che non consideriamo il coraggio una forma di incoscienza che fa sospendere il giudizio sulle conseguenze di ciò che si sta per fare. Allora sì. E’ necessario sospendere il giudizio, altrimenti l’enormità e il peso dei ragionamenti, l’eccesso di consapevolezza – come dice Dostoevskji – “ti fa stare a braccia conserte”. In questo lavoro è meglio non abbondare in consapevolezza, a parte quella strettamente legata agli strumenti del linguaggio e della tecnologia. In Italia è più difficile dici? Non ne sono così sicuro. Qui da noi il cinema non è un’industria, non lo è mai stato, neppure negli anni ’50 e ’60 quando esportavamo decine e decine di film all’anno in tutto il mondo. In America invece, dove il fatturato del cinema è secondo solo a quello degli armamenti, è un’industria. Dunque c’è poca competitività sul piano delle raccomandazioni: si devono fare pochissimi film memorabili, e moltissimi film vendibili. Solo questo conta, altrimenti l’industria crollerebbe. C’è, al contrario, una pesante, ridicola, squallida e deleteria competitività dal punto di vista “politico” in Italia, visto che appunto non siamo un’industria. Cioè è difficile fare cinema se non si è figli di, nipoti di, fratelli di, amanti di, compagni di, camerati di. Ma io lì neppure ci provo, dunque non subisco affatto questo tipo di delusione. E comunque l’indipendenza spesso non la scegli, se vogliamo essere onesti fino in fondo, ma ti sceglie. Ed è tutto da vedere cosa sarà di me se dovesse capitarmi – facciamo un po’ di fantascienza – una botta di fortuna tale da permettermi di fare un film da Palma d’Oro. Non siamo tutti Kubrick, appunto, che ha retto fino alla fine e – con moltissima fatica – è rimasto fedele alla sua idea di cinema. In Italia insomma essere indipendenti è una condizione normale, visto che agli esordienti viene metodicamente impedito di essere altrimenti. Negli Stati Uniti è davvero difficile, perché se dimostri una pur piccola abilità, vieni immediatamente inglobato e messo al servizio dell’industria. Che paga con dollari sonanti, capaci di assordare qualunque “anima grande”.

Domanda: Uno dei tuoi lavori più importanti e conosciuti, che hai già citato, è Stanley and Us. Paul Joyce, un altro regista che si è dedicato a Kubrick, ha detto: “Se mi chiedete un consiglio su come fare un documentario su Kubrick, vi dico: non fatelo, dimenticatevene, tornate sui vostri passi. E vi dirò perché: la vostra carriera ne soffrirà. La mia ne ha sofferto. Dopo il mio lavoro su Kubrick sono stato fermo per anni…”. È vera questa cosa? Hai sofferto tu? E come mai hai deciso di fare un documentario su Kubrick? Come nasce il progetto?

Federico Greco, risposta: No, non ho sofferto professionalmente. Anzi, è stato proprio Stanley and Us che mi ha permesso di andare avanti e cominciare ad avere abbastanza credito da vedermi accettate nuove proposte. Joyce stava proiettando alcune sue delusioni professionali e personali su di noi. Questo l’abbiamo scoperto dopo. Però è vero che il suo documentario, The Invisible Man, è stato bloccato. E solo perché parlava di Kubrick senza il suo permesso. Con queste premesse abbiamo affrontato la preparazione di Stanley and Us: sapevamo che sarebbe stato, semplicemente, impossibile fare un documentario su Kubrick. E se vuoi sapere perché l’abbiamo fatto lo stesso, vedi sopra, al capitolo incoscienza. Va aggiunto però alle motivazioni possibili il capitolo passione. Pura e semplice. Magari un po’ naif. Forse è per questo che preferisco Lorenzo Lotto a Raffaello, o Ligabue a Klimt. Dunque il progetto nasce perché io Mauro e Stefano ci incontriamo davanti al cinema Greenwich di Roma e ci cominciamo a sentire un po’ idioti di fronte al fatto che ne avevamo parlato tanto ma non avevamo ancora mosso un dito. In più di lì a qualche mese al Festival di Venezia Laudadio avrebbe conferito a Kubrick il Leone d’Oro e c’era la possibilità che qualche suo collaboratore avrebbe potuto farsi vivo. Così è stato; e così abbiamo intervistato, per esempio, Malcolm McDowell. La prima delle 48 interviste di cui è composto l’intero progetto, che ha visto il primo giro di manovella nel settembre 1997 e l’ultimo (per il momento?) a metà del 2001. L’idea invece di fare di Stanley and Us un piccolo film e 38 episodi è del responsabile di RAISAT CINEMA che ha creduto nel progetto quando era ancora sulla carta, Enzo Sallustro. Mentre la trasformazione di Stanley and Us versione da 58′ da semplice documentario su Kubrick al racconto di un documentario su Kubrick è venuta strada facendo, quando ci siamo resi conto di due cose: non avremmo mai avuto le clip dei suoi film dalla Warner; quello che stava capitando era così interessante che se anche non fossimo arrivati fino a Kubrick sarebbe stato interessante raccontare come e perché. A livello economico abbiamo avuto la fortuna di avere dalla RAI un contratto firmato prima di partire per la parte più corposa delle riprese, con il quale siamo riusciti ad avere un forte prestito bancario e continuare. Dal nulla, davvero dal nulla è cominciato tutto. Ed oggi Stanley and Us è visto in tutto il mondo. Ma noi non siamo ancora rientrati del tutto delle spese.
Una delle cose più belle è che ci sono ancora delle appendici. Per esempio sto lavorando sulla biografia (libro, non film) di un personaggio straordinario come Emilio D’Alessandro, l’autista e il confidente personale di Stanley negli ultimi 28 anni della sua vita. Si chiamerà Driving Mr. Kubrick e proprio in questi giorni sto facendo tradurre un abstract per sondare il mercato editoriale inglese. Un altro tassello dello Stanley and Us Project, in cui “project” sta per lavoro virtualmente infinito.

Domanda: Principalmente svolgi un lavoro da documentarista… Il documentario è, di questi tempi, spesso considerato semplicemente come un genere accessorio del vero cinema (così lo chiamano), eppure con Van Der Keuken, Wiseman, Pahn e altri registi contemporanei ormai il documentario dovrebbe essere considerato vero e proprio cinema. E in effetti a tutti gli effetti lo è. Ora, da queste considerazioni (mancanza di nobiltà de documentario e preferenza del pubblico per prodotti di fiction) vorrei chiederti come mai il tuo lavoro si svolge principalmente in questo campo. Credi che ci sia bisogno, attraverso un lavoro assiduo, di sensibilizzare maggiormente il pubblico a questo “genere”? E comunque, sempre ricollegandomi a quanto già chiestoti, ti senti più vicino al documentario, nel senso che lo reputi un approccio più diretto per accostarti alla “realtà ” da filmare piuttosto che la fiction? Poi certo il tuo ultimo lavoro “Road to L.” è un film con un impianto narrativo più costruito, ma soffermiamoci un attimo sull’aspetto del documentario…

Federico Greco, risposta: Alla tua lista aggiungerei Joris Ivens e De Seta. Rispondo sì a tutte le tue domande e concordo in pieno con tutte tue affermazioni che riguardano il Documentario. Aggiungerei però che c’è molta molta molta ignoranza oggi sulla parola. I francesi hanno capito che per fare un po’ di chiarezza nel campo c’era bisogno di un nuovo termine e hanno coniato quello di “Documentario di Creazione”. In questo modo giustamente fanno una netta divisione tra i reportage, i documentari naturalistici e i puri e semplici saggi-audiovosivi (distinzione che i dirigenti RAI non fanno da più da trent’anni) – dove la mano del regista non è presente se non come assemblatore di informazioni – e i veri e propri Documentari. Il Documentario di Creazione, quello cui ci stiamo riferendo, è ben altro. E’ un altro modo di fare cinema, ma è sempre cinema. Con la differenza che l’autore decide di raccontare la realtà più o meno senza “ricostruirla”, ma riorganizzandola dopo averla filmata dal vero e dandole un nuovo senso. Quanto più il nuovo senso apre nuove riflessioni e nuovi modi di vedere quella realtà, tanto più il Documentario è riuscito. Per dimostrare che il Documentario è Cinema potremmo affrontare il discorso, lampante, delle contaminazioni che non da oggi il cinema ci ha proposto. Contaminazioni più linguistiche (quasi tutti i film di Cassavetes) oppure più sostanziali (Zelig, Prendi i soldi e scappa e Accordi e disaccordi di Woody Allen). Ma per far capire quale importanza do al Documentario di solito cito una cosa che capitò a Nicholas Philibert (Essere e Avere). Dopo aver visto il suo documentario, una signora volle complimentarsi col regista: “Sa, signor Nicholas. Il suo film è straordinario”: usò proprio la parola film, non aveva la minima idea che si trattasse di un documentario, o meglio, non se ne era accorta. “E lo sa perché?” continuò “Perché è vero”. Da qui ad aver fatto anche io dei documentari in questo senso, però, purtroppo per me, ce ne corre.

Road To L. non è un lavoro a soggetto. Non esisteva una sceneggiatura, solo una scaletta documentaristica. La “riorganizzazione” della realtà che avevamo filmato è stata così complessa e attenta in fase di post-produzione, che ne è venuto fuori un prodotto con dignità cinematografica. Perché per avere dignità di sala un film deve “sembrare” un film e non un documentario. Nel mio caso ci siamo riusciti, spero, ma senza intaccare la sensazione di verità. Paradossalmente il film è fondamentalmente un lavoro di post-produzione (come mi era già successo con Stanley and Us) talmente approfondito, elaborato e raffinato che alla fine ne esce fuori appunto un film dal sapore fiction. Mentre invece è la documentazione di quanto è successo in quegli undici deliranti giorni di riprese nel Delta del Po sulle tracce di un legame tra Lovecraft la cultura di quei luoghi. Con delle forzature, ovviamente, anche in fase di ripresa… Ma dove sia la finzione e dove sia la realtà è un gioco che lasciamo al pubblico. Fa parte del meccanismo del film, fin dall’inizio. E credo che sia una sua grande forza.
Per quanto riguarda la mia inclinazione per il documentario o la fiction… questa è una domanda molto complessa. Diciamo che mi trovo in una pausa di profonda riflessione riguardo a quale dei due bivi prendere. L’unica risposta sensata che mi do al momento è che le due strade non sono alternative. Ma è un fatto che l’ultimissima cosa che ho fatto è Quilty, un mediometraggio di pura finzione alla Mulholland Drive, di cui sono particolarmente soddisfatto, e che il film che ho in preparazione con Igor Maltagliati è anche questo un noir cupo di fiction.

Domanda: La “trasformazione” di un documentario in un film di fiction a riprese finite… Soffermiamoci un attimo su come nasce Road To L. perché trovo sia veramente interessante, nonché estremamente raro, questo modo di fare cinema, ci sarebbe da scrivere un libro su questa “operazione”. In sostanza invece di una sceneggiatura c’era un film come “testo” di partenza, quindi immagini e non indicazioni scritte… Il cinema che nasce direttamente dal suo mezzo e non da un “linguaggio” intermedio…

Federico Greco, risposta: Esattamente. Come detto, Road To L. è la documentazione di quanto è avvenuto durante le riprese del documentario, poi rielaborata in fase di post-produzione. Non ho dovuto ricreare eventi già successi, bensì “riorganizzare” in montaggio quanto era già capitato. Con le ovvie forzature del caso per rendere la storia cinematograficamente “dignitosa”, qualunque cosa questo significhi. Queste forzature, come accennavo, sono state pensate, a volte, anche sul set, mentre le cose accadevano, e comunque a partire, sempre, da quelle cose. Invito spesso il pubblico a fare un giro in quei luoghi per verificare cosa esiste e cosa no, quali personaggi sono veri e quali non lo sono. E’ un viaggio che riserva molte sorprese. Devo dire quindi che purtroppo io e Roberto non possiamo attribuirci tutto il merito che vorremmo, se non quello iniziale di aver ideato il documentario e aver voluto a tutti i costi portarlo avanti. E poi aver tenuto duro fino alla realizzazione definitiva sia del documentario che del film. Quando ci siamo accorti, durante le riprese, che il materiale stava diventando più interessante del previsto, cioè che si stava configurando un’ampiezza narrativa non più solo “saggistica”, classica del documentario, ma dal respiro diegetico molto forte, classico di un film di fiction, abbiamo leggermente cambiato direzione. Nel senso che – come viene anche raccontato nel film – si è deciso di approfondire la descrizione delle dinamiche della troupe.
Probabilmente la mia esperienza con Stanley and Us mi è servita molto durante la realizzazione di questo film. Anche lì è successo che solo durante la fase di ripresa ci siamo accorti che il meccanismo di registrazione della realtà era altrettanto interessante della realtà che stavamo indagando. Alcune riflessioni sul linguaggio e sulle sue conseguenze cinematografiche sono ovviamente arrivate dopo le riprese. Ma tutte, senza eccezioni, mi hanno convinto che quello che io e Roberto stavamo facendo aveva un senso profondo. Soprattutto se riferito all’oggetto della nostra indagine. Lovecraft in fondo è stato l’autore del più famoso inganno letterario di tutti i tempi, il Necronomicon. Ecco – anche – perché il film è un mockumentary.
Quando all’inizio decidemmo di provare a realizzare un documentario sul ritrovamento del manoscritto, pensammo che era un’ottima idea dal punto di vista del tentativo di portare Lovecraft sullo schermo. Non c’è nessun film tratto dai suoi racconti che secondo me sia riuscito. Capimmo che la forma documentaristica sarebbe stata invece un’occasione unica per sperimentare quello che avevamo sempre pensato. E cioè che Lovecraft, per la natura strettamente letteraria della sua scrittura, era per definizione impossibile da trasporre per lo schermo in maniera tradizionale. La sfida era quella di evitare di visualizzare i ‘mostri’ di Lovecraft con make-up o effetti visivi. Perchè secondo noi i “mostri” di Lovecraft hanno appunto le virgolette: cioè sono mostri della ragione, pesantissime metafore della complessità delle reazioni della mente umana di fronte all’inconoscibile. Archetipi, insomma, che si materializzano davanti all’uomo. Da un certo punto di vista sono il contrario del sublime kantiano, secondo cui eventi terrificanti (inondazioni, eruzioni vulcaniche…) esperiti dall’uomo in condizioni di sicurezza sono appunto sublimi. Gli eventi terrificanti di cui sono testimoni e “attori” i personaggi di Lovecraft invece sono esperiti senza possibilità di scampo. L’uomo e i suoi mostri (tra cui l’incapacità di sostenere le verità ultime della Vita, l’Universo e Tutto Quanto – per citare il grande Douglas Adams) sono uno accanto agli altri, e l’unico modo per fuggire è decidere di non sapere. Voler approfondire la mostruosità delle rivelazioni sull’esistenza non è alla portata della piccola mente umana.
E tutto ciò è praticamente impossibile da trasportare sullo schermo direttamente. E’ possibile invece ricreare le atmosfere inquietanti delle storie di Lovecraft, senza far vedere i mostri. Secondo un meccanismo che – come dice tra le righe anche Rudolph Arnheim – si chiama “evocazione”, ed è uno degli strumenti più potenti che il cinema, insieme alle altre arti, ci offre. Oggi purtroppo sempre più in disuso. E un documentario può essere un’ottima strada. Devo dire che chi ha visto Ipotesi di un viaggio in Italia ha avuto molto spesso giudizi lusinghieri a questo proposito. Ed essendo Road To L. una sorta di “esplosione” del genere documentario, ci aspettiamo che accada lo stesso. Anzi di più. E devo dire che, se devo giudicare dagli inviti nei festival internazionali (dagli USA alla Corea, dall’Argentina alla Finlandia), forse ce l’abbiamo fatta.

Intervista realizzata da Mattia Matteucci

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